Eugene Laverty, l’eterno secondo che pensa positivo: l’intervista

Eugene Laverty
Smartworld
di Cristina Marinoni

Il matrimonio, le difficoltà in pista, l'amicizia e la fede cattolica: a 30 anni (compiuti da poco), il pilota nordirlandese dell'Aspar Team MotoGP tira le somme su carriera e vita

Nato a Toomebridge, paesino a mezz’ora d’auto da Belfast, nel 1986, Eugene Laverty comincia a correre a 18 anni e, tra Classi 125 e 250 del Campionato britannico, British Supersport, World Supersport, World Superbike e MotoGP, in 14 Campionati si piazza 4 volte secondo in classifica generale.

Senza mai conquistare un titolo.

“Ho sempre perso per una manciata di punti, come quegli indimenticabili 23 in più che ha totalizzato Tom Sykes nella WorldSBK 2013 racconta il pilota nordirlandese, alla prima stagione sulla Ducati Desmosedici GP14.2 dell’Aspar Team MotoGP.

Ecco la nostraintervista integrale.

È questo il tuo cruccio più grande?

“Sì, senza dubbio. Mi mangio ancora le mani. Però, anche quando penso alla World Supersport, ai 7 punti di vantaggio di Cal Crutchlow nel 2009 e agli 11 di Kenan Sofuoğlu nel 2010, non mi spunta il sorriso.

Il lato positivo è che da sconfitte amare come quelle ho tratto una lezione fondamentale, soprattutto ora”.

Sarebbe?

“Provare e riprovare. Non sono più un ragazzino ma non mi scoraggio. Ho ancora tanta voglia di lottare in pista”.

Qual è il tuo obiettivo, a metà stagione?

“Lo stesso di inizio anno: vincere una gara. Ci sono riuscito nella WorldSBK, ho le carte in regola per salire sul gradino più alto del podio anche nella MotoGP. Lavoro allo sfinimento per questo, tutto l’anno”.

Come si svolge la tua settimana?

“Il lunedì successivo alla gara è l’unico giorno in cui tiro il fiato, cerco di recuperare dallo sforzo del weekend e di dormire un po’ di più: durante il fine settimana fatico a prendere sonno a causa dell’adrenalina. Poi scrivo qualche valutazione su com’è andata la gara: impressioni sul tracciato, difficoltà della moto, problemi con le gomme, in modo da riferire nei dettagli ai meccanici e trovare soluzioni insieme a loro.

Da martedì comincio ad allenarmi, almeno 4 ore al giorno, fino a giovedì, anche se mi trovo già in circuito.

Il mio workout preferito? Pedalare: abito a Montecarlo da 3 anni, supero il confine con l’Italia e raggiungo la Liguria, spesso la mia tappa finale è Sanremo, davvero splendida”.

Perché hai deciso di abitare in Costa Azzurra?

“È stato Max Biaggi a convincermi, nel 2012: dividevamo il box dell’Aprilia nella WorldSBK e abbiamo instaurato un ottimo rapporto. Sulla griglia di partenza eravamo acerrimi nemici ma non ci siamo mai mancati di rispetto. Da quando Max ha appeso la tuta al chiodo, il legame si è rafforzato ancora di più e ci vediamo spesso”.

Hai lasciato il Mondiale Superbike nel 2014: c’è qualcosa di cui senti la mancanza?

“Il mio livello di prestazione. Sulle derivate ero competitivo in ogni round, sui prototipi devo accontentarmi di stare nelle retrovie: conosco i miei limiti e quelli della Ducati – come della Honda l’anno scorso – e mi impegno per migliorare, perché le mie ambizioni restano alte. Avrei già cambiato aria, altrimenti.

Mi mancano anche gli amici: in 4 anni, più i 2 di Supersport, il paddock era la mia seconda casa. Io e Pippa (Morton, ndr) ci siamo sposati a dicembre e ho invitato diversi miei ex rivali, che hanno festaggiato con me anche l’addio al celibato, a Barcellona, a metà novembre, il weekend successivo all’ultima tappa della MotoGP. Peccato mancasse Jonathan Rea, occupato con i test: è stata una bella rimpatriata”.

Nella vita, invece, ti manca qualcosa?

“No, il matrimonio era un passo impegnativo che ho fatto sereno e convinto: eravamo fidanzati da 10 anni, ci conoscevamo già bene perché convivevamo da tempo. Non vediamo l’ora di avere un figlio ma arriverà al momento giusto, non abbiamo fretta”.

Tua moglie ti segue dalla prima all’ultima tappa del Campionato: le chiedi tu di accompagnarti?

“Ormai non c’è più bisogno, Pippa fa parte del mio team!

Per me è una presenza indispensabile: avere accanto la persona che ami ti aiuta a staccare la mente dalla lavoro e rilassarti. Il sabato notte precedente alla gara mi capita di svegliarmi e pensare a setting e modifiche: se non ci fosse lei a distrarmi, rimarrei a ragionarci sopra fino all’alba”.

Da come parli sembri un tipo riflessivo, che difficilmente perde la pazienza. È così?

“Direi di sì. Sono pacato, razionale e rigoroso: se avessi continuato gli studi, avrei seguito le orme di mio padre e adesso sarei ingegnere. Invece mi sono imbattuto in una moto a 12 anni e ho capito subito che non sarei più sceso dalla sella. L’ho scritto anche in un tema: la traccia chiedeva cosa avremmo fatto da grandi. Il succo del mio elaborato era: ‘Abiterò in Italia, guiderò un’Aprilia e avrò dei figli’. L’Aprilia l’ho guidata, sono certo che sarò padre e, chissà, un giorno potrei trasferirmi in Italia con la famiglia”.

Un giorno potresti anche tornare a montare una derivata di serie?

“Nel caso in cui ricevessi un’offerta da parte di una scuderia con ambizioni alte, perché no. Ho lasciato il Mondiale Superbike per un motivo: i due posti nel team ufficiale Kawasaki, l’unico in grado di vincere il titolo, erano occupati. Sapevo che non sarei riuscito a diventare campione, quindi ho accettato la proposta dell’Aspar Team MotoGP”.

Tuo fratello Michael corre nella British Superbike: vi scambiate consigli di guida?

“Sì e ci confrontiamo dopo ogni gara. Se ero in pista io, lui mi dice cosa non lo ha convinto o ha apprezzato e viceversa, quando gareggia lui. Anche John, l’altro mio fratello, ci dà dritte utilissime: prima di diventare il mio manager era un rider”.

Un complimento che hai ricevuto da loro?

“Mi ripetono che sono bravo a rialzare la moto appena esco dalla curva.

Ho imparato in WorldSBK con le Pirelli e sto affinando la tecnica in MotoGP: non è per niente facile cambiare moto e pneumatici in un colpo solo, tra Honda e Ducati, Bridgestone e Michelin mi sto mettendo di continuo alla prova”.

Tanti al tuo posto si sarebbero già arresi. Dove trovi la forza per non arrenderti?

“Dalle persone care: credono in me e mi caricano di fiducia ed entusiasmo. E dalla fede: da nordilandese doc, sono cattolico. Vado a Messa appena posso e credo di aver ricevuto in dono un talento da sfruttare: non intendo sprecarlo e ringrazio dando il massimo. I risultati non piovono dal cielo, bisogna guadagnarseli, e lavorare in armonia con gli altri è uno straordinario mezzo per ottenerli. Il Vangelo insegna che dobbiamo trattare il prossimo come vogliamo essere trattati: io, nel mio piccolo, metto in pratica la regola anche nel box”.

(Foto: Stefano Biondini)