Dalla Aprilia alla Flavia, la storia delle berline Lancia

Smartworld
di Marco Coletto

75 anni di evoluzione delle "segmento D" torinesi

Da 75 anni le berline Lancia accompagnano gli automobilisti italiani che percorrono tanti chilometri e non vogliono rinunciare all’eleganza. Il modello attualmente in listino, la seconda generazione della Flavia presentata nel 2012, è una cabriolet con tetto in metallo dotata di un motore 2.4 a benzina da 175 CV. Una variante rimarchiata della Chrysler 200 Convertibile in vendita negli USA. Scopriamo insieme le sue antenate.

Aprilia (1937)

Un’evoluzione della Augusta (la prima vettura chiusa al mondo con scocca autoportante) caratterizzata dalle camere da scoppio emisferiche (per migliorare il rendimento del motore 1.4 da 47 CV), dalle sospensioni a quattro ruote indipendenti e, soprattutto, da una linea estremamente aerodinamica.

La coda originale penalizza l’abitabilità posteriore e la visibilità ma consente di ridurre i consumi (merito anche dell’assenza dei gocciolatoi e delle cerniere esterne per le portiere ad armadio). Per diminuire le masse non sospese e migliorare la tenuta di strada i freni vengono posizionati all’uscita del differenziale.

La vettura viene presentata ufficialmente al Salone di Parigi del 1936 con il nome Ardennes mentre a Londra e a Milano viene svelata con il nome Aprilia (in onore della città dell’agro pontino fondata nello stesso anno) e con fari anteriori più piccoli. Il pianale viene utilizzato da diversi carrozzieri per realizzare fuoriserie: la più nota è la Cabriolet di Pininfarina.

Vincenzo Lancia – dopo un test effettuato prima del lancio – decide di limitare la velocità massima a 125 km/h, ma la sua morte per infarto il 15 febbraio 1937 gli impedisce di vedere uscire il primo esemplare dalla catena di montaggio nove giorni più tardi.

La strumentazione è molto originale: premendo un bottone è possibile conoscere il numero di litri di carburante presenti nel serbatoio e in riserva appare l’indicazione “benzina solo per 25 km”.

Nel 1937 alla versione base si aggiunge nel mese di agosto la variante Lusso dotata delle pedane laterali.

La seconda serie del 1939 porta un motore 1.5 con potenza invariata e coppia più elevata, e modifiche profonde alle sospensioni anteriori e alla trasmissione. Nello stesso anno un nuovo autotelaio più robusto con sospensioni posteriori a ponte rigido viene utilizzato per realizzare una serie di vetture “Coloniale”.

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale la Aprilia riprende la sua carriera con un impianto elettrico da 12 Volt. Nel 1949, in concomitanza con l’addio alle scene (il 22 ottobre viene assemblato l’ultimo esemplare), la Siata realizza un autocarro dotato dello stesso propulsore della berlina torinese.

Flavia (1960)

Presentata al Salone di Torino, ha una linea caratterizzata da ampie superfici vetrate e un abitacolo molto spazioso (sei posti) con una strumentazione completissima.

La vera erede della Aprilia (l’Aurelia appartiene ad una categoria superiore) ha la trazione anteriore ed è la prima auto italiana a montare quattro freni a disco, nonché la prima Lancia dotata di un propulsore boxer.

Il primo motore al lancio – un 1.5 da 78 CV poco potente – viene presto affiancato da un 1.8 da 92 CV (portato nel 1965 a quota 102 CV grazie all’iniezione meccanica). Successivamente il 1.8 diventa un 2.0 da 115 CV: 124 per la variante ad iniezione meccanica del 1969, 126 per quella ad iniezione elettronica del 1971.

La gamma è composta da altri modelli: la Coupé di Pininfarina (che nel 1962 si aggiudica il Rally di Sanremo, un anno dopo la vittoria della berlina), la Sport di Zagato e la Convertibile di Vignale.

Nel 1970, in occasione dell’addio alle scene dell’ammiraglia Flaminia, viene deciso di riposizionare verso l’alto l’ultima evoluzione della Flavia da due litri, che viene chiamata solamente 2000.

Beta (1972)

La prima Lancia realizzata dopo l’acquisto della Casa torinese da parte di Fiat nel 1969 ha una gamma motori al lancio (1.4 da 90 CV, 1.6 da 100 CV e 1.8 da 110 CV) condivisa con 124 Sport, 125 e 132 ma il pianale, le sospensioni e la trasmissione sono ancora realizzate in completa autonomia.

Le forme della berlina, troppo simili a quelle della Citroën GS, non attirano e l’assenza del portellone penalizza la praticità. L’abitacolo, in compenso, è molto spazioso, la tenuta di strada è buona e i freni sono potenti.

Due gli allestimenti: base e LX (cerchi in lega, mascherina cromata e servosterzo).

Nel 1973 arriva la 1.3 da 83 CV mentre il restyling del 1975 porta un nuovo frontale, i fari carenati, una coda ridisegnata e il lunotto più ampio. Senza dimenticare i rivestimenti interni rinnovati. Il motore 1.8 diventa un 2.0 da 119 CV mentre sparisce dal commercio il 1.4.

Nel 1979 è la volta dell’ultimo restyling; fari rettangolari con indicatori di direzione ai lati, mascherina simile a quella della Delta, profilo in gomma per la fiancata più spesso, paraurti più avvolgenti e una plancia più originale (piena di fori) ma anche peggio rifinita. Il 1.3 abbandona le scene mentre il 2.0 è meno potente (115 CV, 122 con l’iniezione elettronica) ma garantisce percorrenze più elevate con un pieno di carburante.

Beta Coupé (1973)

Il pianale è lo stesso (accorciato) della cinque porte mentre lo stile è opera di Piero Castagnero (autore anche della Fulvia Coupé). La vettura piace e anche le finiture sono migliori di quelle della berlina. La plancia ha un design inedito e i motori sono più potenti di quelli della variante “hatchback”: 1.6 da 109 CV e 1.8 da 119 CV.

Il restyling del 1975 porta una mascherina con barre orizzontali (le ultime cinque cromate) e gli stessi motori della berlina (1.6 da 100 CV e 2.0 da 119 CV) mentre nel 1976 la 1.3 da 83 CV – mascherina nera, sedile posteriore intero senza poggiatesta, strumentazione semplificata e dotazione di serie meno ricca – rimpiazza la Fulvia Coupé 1.3.

Nel 1981 c’è un altro restyling, caratterizzato dalla mascherina anteriore simile a quella della seconda serie della Gamma Coupé, dai paraurti più spessi e dalla plancia meno originale e anche peggio rifinita. Le versioni più sportive montano uno spoiler in plastica. Il 1.3 da 83 CV diventa un 1.4 da 84 CV e l’iniezione elettronica sul 2.0 porta la potenza a 122 CV.

Nel 1982 arriva la 2.0 Volumex con compressore volumetrico da 136 CV: si differenzia dalle altre per lo spoiler nero sotto al paraurti anteriore e per un rigonfiamento sul cofano.

Beta HPE (1974)

Quando la sportività incontra la praticità: la versione coupé dotata di portellone posteriore e sedili posteriori sdoppiati ha il pianale condiviso con quello della berlina e una coda originale.

La gamma motori è identica a quella della Coupé – 1.6 da 109 CV e 1.8 da 119 CV – così come il percorso evolutivo. Il restyling del 1975 porta i propulsori 1.6 da 100 CV e 2.0 da 119 CV.

Nel 1981 il nome cambia in HP Executive e arriva l’iniezione elettronica per il 2.0 (122 CV) mentre nel 1982 tocca alla Volumex da 136 CV.

Beta Spider (1974)

Non è una roadster vera e propria ma una Targa (rollbar e tetto rigido asportabile) nata da un progetto di Pininfarina e assemblata dalla Zagato. L’atelier milanese riceve le scocche della Coupé, le modifica e le rimanda in Piemonte per il montaggio delle parti meccaniche.

La gamma motori è la stessa della Coupé – mancano solo il 1.3 e il Volumex – ma non ottiene molto successo per via del prezzo elevato. Il restyling del 1975 consiste principalmente nei gruppi ottici posteriori leggermente modificati mentre nel 1977 il paraurti posteriore viene modificato per ospitare le nuove targhe rettangolari.

Beta Montecarlo (1975)

Nonostante il nome ha solo il propulsore 2.0 da 119 CV in comune con le altre Beta. La vettura, svelata al Salone di Ginevra e ribattezzata Scorpion negli USA a causa della presenza nei listini americani della Chevrolet Monte Carlo, deriva da un progetto di Pininfarina per una sportiva a motore centrale e trazione posteriore da vendere con il marchio Fiat.

La seconda generazione del 1979 si differenzia per i vetri posizionati nelle pinne posteriori per aumentare la visibilità, per i cerchi più grandi e per i nuovi rivestimenti. Sparisce il prefisso Beta dal nome e il motore passa a 120 CV.

Sulla stessa base viene costruita la versione da corsa Turbo, che conquista numerose vittorie in pista e che a sua volta serve come base per la Rally 037, campionessa del Mondo Marche nel 1983.

Beta Trevi (1980)

La variante con la coda (squadrata) non convince il pubblico per via del design poco originale caratterizzato dal montante posteriore massiccio. I tre motori al lancio – 1.6 da 100 CV, 2.0 da 115 e 122 CV – vengono affiancati nel 1982 dalla versione Volumex: propulsore 2.0 da 136 CV, cerchi in lega e spoiler nero sotto il paraurti.

Nello stesso anno, in occasione del restyling, sparisce il nome Beta.

Prisma (1982)

Disegnata da Giorgetto Giugiaro e costruita sul pianale della Delta, ha una strumentazione ricca, finiture di buon livello e tre motori: 1.3 da 78 CV, 1.5 da 85 CV e 1.6 da 105 CV.

Nel 1984 arriva il 1.9 diesel da 65 CV mentre nel 1985 tocca al 1.9 turbodiesel da 80 CV. La seconda serie del 1986 è caratterizzata dall’estetica rinnovata (paraurti anteriori con fendinebbia integrati optional) e dal debutto del 1.6 ad iniezione da 108 CV. La 4WD del 1987 a trazione integrale monta un 2.0 da 115 CV.

Dedra (1989)

Il pianale è condiviso con Alfa Romeo (155) e Fiat (Tipo e Tempra) mentre il design, molto aerodinamico, è opera dell’I.DE.A. Institute. Grande abitabilità, tanto comfort ma anche gravi problemi di affidabilità all’impianto elettrico. Cinque i motori al lancio: quattro a benzina (1.6 da 76 e 88 CV, 1.8 da 107 CV e 2.0 da 115 CV) e un 1.9 turbodiesel da 90 CV.

Nel 1992 la gamma viene ampliata con nuovi cerchi, con il cambio automatico abbinato al motore 2.0 e con il 2.0 turbo da 185 CV (180 per la Integrale). Nel 1993, in concomitanza con il lancio della seconda generazione della Delta (in pratica una Dedra senza la coda), la berlina torinese beneficia di qualche modifica agli interni.

Un restyling importante arriva nel 1994: gruppi ottici posteriori rossi con una fascia bianca centrale, calandra con listelli cromati e, soprattutto, la versatile variante station wagon. I motori sono un 1.6 da 90 CV, un 1.8 da 108 CV e un 2.0 da 139 CV.

Nel 1996 la potenza del 1.8 sale fino a quota 113 CV mentre il 1.8 da 131 CV rimpiazza il 2.0 da 139 CV. Nel 1998 è la volta di altri cambiamenti: fari anteriori più sottili, paraurti in tinta con la carrozzeria, maniglie nere, nuovi cerchi in lega, gruppi ottici posteriori rossi e cruscotto simile a quello della Delta. C’è anche un nuovo motore: un 1.6 da 103 CV.

Lybra (1998)

La base tecnica è la stessa dell’Alfa Romeo 156 ma le sospensioni più morbide garantiscono un comfort superiore. Il design esterno è caratterizzato da forme sinuose e da fari retrò tondi e sporgenti mentre gli interni sono rifiniti in maniera esemplare con materiali di alto livello (Alcantara e pelle).

Cinque motori al lancio: tre a benzina (1.6 da 103 CV, 1.8 da 131 CV e 2.0 da 154 CV) e due turbodiesel JTD (1.9 da 105 CV e 2.4 da 136 CV).

Nel 2000 il 2.0 passa da 154 a 150 CV, il 1.9 JTD da 105 a 110 CV e il 2.4 da 136 a 140 CV, nel 2001 il 1.9 JTD passa a 116 CV e nel 2002 il 2.4 JTD sale fino a quota 150 CV.