Jonathan Rea, l’intervista: “Il segreto per vincere tre Mondiali? Godersi la vita”

Jonathan Rea
Smartworld
di Cristina Marinoni

Primo rider a conquistare il Mondiale delle derivate tre volte di fila, il nordilandese del Kawasaki Racing Team parla del "giusto equilibrio", della famiglia e del futuro, in pista e fuori

Nel 2018 il numero 1 rimarrà incollato sul cupolino di Jonathan Rea: il 30 settembre, a Magny Cours, il nordirlandese ha vinto il Mondiale delle derivate con due round d’anticipo. Ed è entrato nella storia: è il primo pilota a conquistare tre titoli consecutivi nella WorldSBK.

A quota 50 gare vinte, soltanto Troy Bayliss (3 mondiali e 52 vittorie) e Carl Fogarty (4 mondiali e 59 vittorie) hanno fatto meglio di lui. “Ancora non ci credo: il mio sogno era diventare campione del mondo, esserci riuscito tre volte va oltre ogni aspettativa” dice il rider del Kawasaki Racing Team.


Ci riassumi queste tre stagioni memorabili?

“Nel 2015 sono entrato nella scuderia Kawasaki e la ZX-10RR era perfetta: ci sono salito sopra ed era pronta per vincere, non è stato difficile portare a casa il titolo. Il 2016 è stato una bella sfida. La moto era nuova di zecca, dal telaio al motore, e svilupparla ha richiesto un impegno enorme; abbiamo lavorato sodo per risolvere i problemi emersi durante i test invernali e siamo riusciti a vincere subito, a Phillip Island.

Quest’anno abbiamo dimostrato la forza della squadra e della factory, sempre compatte: siamo partiti con un ottimo pacchetto e ci è bastato mettere in pratica le informazioni che avevamo raccolto”.

Nel 2018 scade il tuo contratto con la Kawasaki.

“Entro fine dicembre incontrerò i dirigenti della Ninja per capire i loro piani. Altri due anni sulla “verdona” sarebbero perfetti, insieme abbiamo ottenuto risultati eccezionali, ma valuterò anche l’ipotesi di passare in MotoGP, se arriva qualche proposta interessante”.

Con il record di tre Mondiali di fila in bacheca non hai pensato di ritirarti?

“No, in pista mi diverto ancora da matti. Però, di sicuro appenderò il casco al chiodo prima dei 40 anni, così potrò dedicarmi alla famiglia. Mia moglie Tatia e i piccoli mi seguono in quasi tutte le tappe del campionato, ma questo mestiere toglie un sacco di tempo prezioso: tra gare, allenamenti e test, i giorni liberi nell’arco di un anno sono davvero pochi”.

Hai dei progetti per quando lascerai le corse?

“Starò di più a casa, altrimenti Tatia chiede il divorzio. A ragione: dopo tanti anni da vagabondo, ci meritiamo tutti una vita più tranquilla, normale. Però continuerò a praticare il motocross, magari parteciperò a qualche gara ‘senior’, e se i miei figli si appassioneranno alle due ruote, li sosterrò.

Jake, di 4 anni, ha la sua moto e sembra portato. Tyler, che ha 2 anni, monterà in sella presto”.

Ci rimarresti male, se non seguissero le tue orme?

“No, sono liberi di fare ciò che vogliono. Preferiscono il calcio? Vorrà dire che li porterò allo stadio invece che all’autodromo”.

Il Mondiale terminerà il 4 novembre: cosa farai dopo l’ultima gara a Phillip Island?

“Il calendario sembra tagliato su misura per me: mia moglie è cresciuta vicino al circuito e approfittiamo per fermarci. Un bel po’: in Europa d’inverno il clima è orrendo e di solito trascorriamo qualche mese con la sua famiglia. A inizio dicembre, tra l’altro, sarà pronta la nostra casa”.

Vi trasferirete in Australia?

“È un’opzione, non a breve termine. Io e Tatia stiamo valutando l’idea di costruire la casa dei nostri sogni nella mia Irlanda del Nord. Abitiamo sull’Isola di Man, lontani dai nostri cari, e per i bambini è fondamentale crescere con l’affetto dei parenti”.

Hai 30 anni e corri in pista da oltre 10: sei cambiato come pilota?

“Da quando guido la Kawasaki, sì: la moto richiede frenate e accelerazioni continue, mentre a me viene facile farla scorrere, stare composto e senza gomiti a terra. Adesso ho uno stile più dinamico: Quando mi rivedo nei video di qualche anno fa, sembro pigro, svogliato”.

Come uomo sei cambiato?

“Sì, in meglio: prima mi stressavo per le sciocchezze, ora mi preoccupo solo per le questioni importanti. Grazie ai bambini: mi hanno insegnato loro a non sprecare tempo ed energie. Nei rookie, ritrovo me stesso una decina d’anni fa: come per loro, la moto era la mia ragione di vita e non ero felice”.

Hai rimpianti?

“No, da ragazzino non ho rinunciato a niente, ho fatto tutto quello che fa qualsiasi teenager, compreso andare alle feste e bere litri di birra.

Non ho mai preso droghe perché mio padre non scherzava: se mi avesse scoperto, avrebbe venduto la moto. Adesso che ho dei figli, lo capisco perfettamente”.

Perché dici che non eri felice?

“Intorno ai 20 anni ero diventato ‘motocentrico’, tutto il resto non esisteva e, se una gara andava male, restavo triste e deluso fino alla successiva. Anche i rider della MotoGP non sprizzano di gioia.

Mi piace Aleix Espargaró e lo seguo sui social: pubblica solo foto di cibo e mi mette una desolazione unica. Un giorno gli ho scritto: ‘Spero che ti mangerai presto una mega bistecca.

Io, se mi sveglio e ho voglia di gelato, lo mangio. Bisogna trovare il giusto equilibrio e godersi la vita, che è solo una. Per fortuna l’ho capito abbastanza presto: ricordo domeniche sere fantastiche nel 2009, dopo le gare, in compagnia di Troy Bayliss e Noriyuki Haga”.

Oltre a diventare una leggenda della WorldSBK quest’anno hai ricevuto l’onorificenza di membro dell’Ordine dell’impero britannico.

“Non mi erano mai arrivati tanti messaggi di congratulazioni, nemmeno dopo aver vinto i campionati. È un riconoscimento di cui vado fiero perché regala una popolarità unica al mio sport. Che il merito vada ai prinicipi i William e Harry? Potrebbero essere stati loro a segnalare il mio nome alla regina Elisabetta”.